La lettera che i sacerdoti sono soliti attendere dal Santo Padre per il giovedì santo, quest’anno non è arrivata. E’ stata apparentemente interrotta una lunga tradizione. Tutti i temi del sacerdozio, peraltro, sono stati ampiamente trattati da Giovanni Paolo II. Ogni sacerdote però può sentire rivolta a sé l’omelia che Benedetto XVI ha indirizzato ieri ai cardinali, vescovi, presbiteri – diocesani e religiosi – presenti in Roma durante la Messa del Crisma (è pubblicata a pag. 4). Nel corso della celebrazione in cui si è avuta la benedizione degli oli santi che i parroci useranno nella celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana e per l’unzione degli infermi, e la rinnovazione delle promesse sacerdotali, la parola del Papa è stata particolarmente intensa e penetrante. Chi lascia risuonare quelle parole dentro il proprio giardino interiore, si sente rinnovato nel dono del ministero presbiterale ricevuto e nella risposta da lui data alla vocazione sacerdotale. “Il sacerdozio è diventato una cosa nuova in Cristo” e non va sciupato, né dimenticato nella sua misteriosa grandezza.
Più che di richiamo e ammonimento, queste parole hanno il sapore e lo stile dell’esortazione alla fiducia e al conforto per la presenza amica del Cristo nella vita del sacerdote. Ricordando l’imposizione delle mani ricevuta nel rito dell’ordinazione presbiterale, Benedetto annota che essa oltre a significare potere spirituale e missione evangelica, indica soprattutto protezione. Le mani sul capo significano che “Cristo ha preso possesso di me dicendomi: tu mi appartieni, tu sei mio, tu stai sotto la mia protezione”.
Di queste parole hanno bisogno costantemente tutti gli uomini amati dal Padre che non abbandona alcuna delle sue creature. I sacerdoti, tentati dall’attivismo frenetico richiesto dalle mille sfide del tempo moderno, ne hanno tuttavia particolare bisogno. Il Papa afferma che l’attivismo può essere anche eroico, eppure senza frutti, se non nasce dall’intima comunione con Cristo. E questa è una considerazione che tocca da vicino l’esperienza concreta di molti presbiteri, parroci e responsabili delle molteplici iniziative che stanno sotto l’ombrello della Chiesa. Spesso, infatti, esposti senza rete nelle situazioni più disparate e disperate, i preti non fanno gli attivisti per giochi personali o per interessi di categoria, ma sono piuttosto costretti, come il Cireneo, a portare i pesi delle croci di persone e famiglie o a supplire alle vistose inadempienze e lacune delle istituzioni civili. Si trovano nella necessità di piegarsi al richiamo degli emarginati, degli “uomini senza” (senza famiglia, senza lavoro, senza casa, senza cittadinanza, senza soggiorno?senza salute mentale) per offrire una qualche risposta di fede o di carità, in prima fila sempre a contatto con il dolore del mondo.
Cristo stesso li ha messi a contatto con “la miseria del peccato e tutta l’oscurità del mondo”, affidando loro il ministero della riconciliazione e delle misericordia. La consolazione che pervade anche questa dimensione sofferta del prete consiste nel sapersi “amico”, in un senso del tutto speciale, in quanto cioè Cristo si serve della sua voce per annunciare il Vangelo, delle sue mani per benedire e operare la carità, della sua presenza per rendersi presente nella comunità, insomma, di operare “in persona Christi”. Questa speciale dignità del sacerdote comporta un’intimità di rapporto esistenziale e contemplativo con il Cristo, senza il quale tutto si banalizza e perde forza ed efficacia. Per questo, dice il Papa, “il sacerdote deve essere soprattutto un uomo di preghiera” ed ha additato ad esempio don Andrea Santoro, ucciso a Trebisonda in Turchia, mentre era in chiesa intento a pregare.
Di questo sacerdote romano ha voluto anche ricordare un pensiero che è la migliore ermeneutica concreta delle parole di Gesù: “Questo è il mio corpo”. Don Santoro, citato dal Papa, scriveva: “Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di f arlo prestandogli la mia carne? Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne”. E’ ciò che i preti cercano di fare pur nella precarietà e debolezza della loro umanità.