Tra le diverse riflessioni sul caso Englaro ce n’è una che merita di essere approfondita, e riguarda coloro che si dedicano ad assistere le persone malate come Eluana. Lo fanno con totale gratuità, perché ciò fa parte della loro vocazione, così come altri assistono i malati gravi, quelli che non vedono e non sentono, hanno malattie che respingono, resistono con un filo di vita ad una fine che incombe ma può essere rinviata. Sono gli eredi della grande tradizione cristiana di chi nei secoli ha assistito i lebbrosi, salvato dalla solitudine gli inguaribili, affrontato tremende malattie mettendo a disposizione se stesso con il rischio del contagio e della contaminazione. Noi diamo per scontato, quasi ovvio, il sacrificio di queste esistenze (per lo più di religiosi e religiose) donate agli altri, al punto che ce ne dimentichiamo e non ne parliamo. Commettiamo un errore, una grave reticenza, perché non cogliamo il significato etico e sociale di esperienze da cui derivano insegnamenti per tutti noi. Il ruolo svolto storicamente da chi ha scelto l’amore per gli ultimi è stato quello di rovesciare i valori della società antica. Di affermare nei fatti, oltre che a parole, che ogni vita è preziosa, anche quella dei reietti, di coloro che sembrano repellenti per le piaghe del corpo e della mente, di coloro che le persone normali non riescono ad accostare, perché costerebbe sacrificio. Da lì è venuta uno sprazzo di luce che ha reclamato il valore inalienabile di ogni persona enunciato dai Vangeli, e lo ha innestato nella società, illuminando il nostro vivere civile, il diritto, i costumi. Quante volte, assistendo all’opera di questi protagonisti dell’amore cristiano, abbiamo sentito una stretta al cuore, per le sofferenze cui ci siamo avvicinati, per l’abnegazione di chi si impegna a lenire i mali degli altri, per un certo qual senso di colpa che ci pervade perché noi non sapremmo fare altrettanto, ci sentiamo un po’ egoisti, ci scopriamo incapaci di eroismo.
  Sappiamo in cuor nostro che queste persone salvano la coscienza della società, alleviano le sofferenze dei più sfortunati, tengono acceso il lume della solidarietà che altrimenti si spegnerebbe, cancellano l’indifferenza colpevole nella quale si può vivere quotidianamente.
  Sappiamo che essi danno corpo e vita all’utopia cristiana del donare la vita per gli altri. Chi ha fede sa che i cieli sono pieni delle schiere di santi che in terra si sono umiliati a servire e assistere i più miseri senza pensare a se stessi.
  Questi protagonisti dell’amore evangelico esistono ancora oggi, cercano di alleviare i mali antichi e nuovi, curano le brutte malattie che esistono ovunque nel mondo, combattono la consunzione del corpo, assistono i malati terminali e chi si trova nella condizione di Eluana. Lo fanno in silenzio, non chiedono niente a nessuno, e forse è giusto così. Meno giusto è che la nostra società, pronta a far chiasso per un nonnulla, è prontissima a non parlare di loro, a nasconderli sotto una coltre di silenzio, a disconoscere ciò che fanno per affrontare i problemi inediti che la medicina ci presenta. Non è indifferente sapere che la vita può essere tutelata anche nei casi più drammatici, per la dedizione di tante persone, per l’opera che svolgono dove altri possono arrendersi, per l’iniziativa di chi è pronto ad assistere e dare speranza a quanti hanno bisogno di essere curati e di sperare. Sarebbe già importante se questa dedizione ottenesse un riconoscimento morale e civile. Ma anche il legislatore che voglia tutelare l’esistenza umana in tutto il suo fluire, anziché ignorare questa disponibilità a prendersi cura degli altri, può valorizzarla in tanti modi.
  Dando rilievo alla funzione che essa svolge nelle strutture sanitarie, pubbliche e private, soprattutto per i casi più gravi e bisognosi di attenzione continua. Facendo conoscere ai medici, ai familiari, le possibilità che chi si dedica agli altri offre per non abbandonare la speranza, non arrendersi di fronte alle prove più dure. Infine, dando rilievo all’impegno di chi, seguendo da vicino le singole situazioni, può contribuire a rafforzare la volontà e le scelte del malato e dei familiari. La salvaguardia di una vita non può essere affidata al dominio di una volontà umanamente piegata, o a scelte compiute in momenti particolari, ma può essere sostenuta da chi si pone volontariamente al servizio del prossimo, soprattutto di chi ha bisogno di tutto. Molto probabilmente, dare spazio e voce a queste persone nel dibattito pubblico e nelle strutture di assistenza, può aiutare chi vive situazioni apparentemente disperate, può far intravedere un’altra dimensione del dolore, può motivare l’accettazione della vita anche nella sofferenza.