Sarà lapidata a Shiraz, l’antica capitale della Persia: così almeno ha stabilito la Corte suprema iraniana rendendo esecutiva la sentenza dell’aprile scorso contro Afsaneh R., una donna originaria della città nell’Iran meridionale, riconosciuta colpevole dell’omicidio del marito ucciso con la complicità dell’amante Reza.
  Quest’ultimo è stato condannato a 15 anni di reclusione e 100 frustate per “rapporti sessuali illegali”, vale a dire al di fuori del matrimonio. A salvare l’uomo dalla lapidazione il fatto che non è sposato, mentre l’aggravante per la donna, secondo il diritto iraniano, è proprio la sua condizione di adultera. Comunque su Afsaneh grava pure una seconda condanna capitale, questa per omicidio. La notizia, sfidando la censura sulle condanne a morte imposta dal regime lo scorso 14 settembre, è stata pubblicata ieri dal quotidiano riformista Etemad Melli. Il giornale precisa come il via libera della Corte suprema risalga al 4 agosto scorso, ma non fornisce alcuna spiegazione sui quasi quattro mesi intercorsi per renderla pubblica. Un delitto contro il diritto di famiglia islamico punito in Iran con il più disumano dei supplizi: la sentenza è eseguita dal pubblico e la legge iraniana precisa addirittura che la morte deve avvenire lentamente, usando pietre piccole in modo da non provocare il decesso immediato. Gli uomini, stabilisce il diritto iraniano, devono essere interrati fino alla vita, le donne fino alle spalle. Il condannato che riesca a divincolarsi e fuggire è graziato. La pratica del rajm ( lapidazione) è ufficialmente sospesa dal luglio 2002 quando l’ayatollah Mahmoud Hashemi-Shahroudi, capo dell’apparato giudiziario, chiese una moratoria della pratica, ma secondo alcune associazioni umanitarie in questi sei anni sono avvenuti almeno tre casi di lapidazione. Una di queste esecuzioni, avvenuta lo scorso anno nella provincia di Qazvin, è stata infatti riconosciuta ufficialmente.
  La sospensione di queste esecuzioni, spiegano le associazioni degli avvocati iraniani, non può essere garantita ma dipende dall’interpretazione del singolo giudice. La sentenza di Shiraz serve comunque a confermare che per il diritto iraniano la pena di morte per lapidazione è sempre in vigore nei casi di adulterio. Oltre ad Afsaneh – rivelano gli attivisti per i diritti umani – sarebbero almeno otto uomini e una donna attualmente in attesa di esecuzione per lapidazione. Solo una parte, per quanto raccapricciante, del ricorso indiscriminato e massiccio alla pena di morte da parte del regime degli ayatollah. Nonostante le continue campagne internazionali di denuncia e gli appelli all’Onu perché venga nominato un inviato speciale per monitorare la situazione, nei primi nove mesi del 2008 si contano 228 esecuzioni capitali comprese le dieci impiccagioni avvenute nel carcere di Evin mercoledì scorso.
  Nell’intero 2007 ne sono state denunciate 335. Una tendenza in continua crescita se nel 2006 se ne sono registrate 215. In assenza di dati ufficiali delle autorità iraniane in molti stimano che il fenomeno reale abbia dimensioni molto maggiori: dati che collocano comunque Teheran con Cina e Arabia Saudita fra i primi tre “Stati Caino” del mondo. Una pratica contraria al diritto umanitario, ma che nasconde aspetti di crudeltà forse ancora più agghiaccianti della lapidazione: solo dall’ottobre scorso sarebbe proibita l’esecuzione di minori colpevoli di reati di droga mentre sarebbe mantenuta per i colpevoli di omicidio. Il vice procuratore di Stato, Hossein Zabhi, ha riferito che sono 120 i minori che rischiano la messa a morte mentre nei primi sei mesi di quest’anno 34 minori sono stati uccisi dal boia, altri 29 sono stati graziati.

 

Luca Geronico

 

 

 

 

fonte: Avvenire 30-11-08