Che cosa posso legittima­mente sperare?, chiedeva Kant. E rispondeva affermando di sperare che la virtù fosse accompagnata dalla felicità, se non in questo mondo, almeno nell’altro. Per Kant oggetto della speranza era che il bene non finisse nel vuoto e nel nulla, ma che fosse per sempre, e che colui che lo avesse fatto ne gioisse eternamente. Questa speranza secondo Kant è legittima, è ragionevole, in un certo senso perfino doverosa.

  Noi tutti sappiamo infatti che ben raramente virtù e felicità vanno insieme. Come sta scritto, il sole splende sul giusto come sull’ingiusto e quasi mai le azioni del giusto trovano adeguata ricompensa. Invece l’ingiustizia trionfa e trionfa doppiamente: restando per lo più impunita e riempiendo di soddisfazione chi la compie.
  Perciò non possiamo fare a meno di pensare che un giorno, se non qui nell’aldilà, chi ha sofferto «in suo nome», in nome del bene, sia consolato. Una speranza, solo una speranza. Ma non un’illusione. Se lo fosse, dovremmo concludere che il più profondo e più radicato dei bisogni umani altro non è che un crudele inganno. Allora sì che l’assurdo e il non senso farebbero irruzione nella nostra vita! E qui Kant sembra riprendere un’argomentazione del grande filosofo neoplatonico Marsilio Ficino, il quale sosteneva che la speranza nell’immortalità è l’equivalente nell’uomo dell’istinto negli animali. Se Dio dà agli animali l’istinto, non è certo per ingannarli. Perché mai allora dovrebbe ingannare gli uomini?
  Perché quella specie di istinto che è la speranza nell’immortalità dovrebbe essere ingannevole? Dire che una certa speranza è ragionevole naturalmente non significa dire che essa sia cosa della ragione, come se la ragione potesse dimostrare l’immortalità dell’anima. No, è la fede a «sostanziare», cioè a riempire di contenuti, la speranza.
  «Fede è sostanza di cose sperate», scriveva magnificamente Dante, che del resto non faceva che tradurre (alla lettera) san Tommaso che a sua volta traduceva san Paolo. Ciò non toglie che la speranza più grande sia ragionevole. Almeno quanto lo è la disperazione.
  Indubbiamente la sola ragione indica all’uomo un orizzonte chiuso, inoltrepassabile, disperante. Ma la ragione e la fede insieme, non l’una contro l’altra, giustificano la speranza. Per questa via si potrebbe addirittura capovolgere il credo quia absurdum nell’absurdum
 quia non credo.
Se è vero che la speranza senza la fede è destinata a svuotarsi e a cadere, c’è da sospettare che un mondo che poco sa della fede e sempre meno vuol saperne finisca con l’essere un mondo di disperati.
  Un mondo quanto meno minacciato dal non senso e dall’assurdo. Certo alla speranza si può anche rinunciare. E non è detto che ciò non rappresenti una specie di antidoto o di profilassi nei confronti della penultima nemica, la delusione.
 Ma poi, una volta caduta la speranza, ogni speranza, che cosa resta?

 

Fonte: Avvenire 28-12-2008